Il lavoro psicologico con le famiglie dove è presente un figlio disabile
Uno degli elementi che si può osservare sempre, nel rapporto che esiste tra genitori e figlio disabile, è la presenza prolungata di un legame di forte interdipendenza. Molte possono essere le ragioni psicologiche del prolungamento della dipendenza reciproca tra genitori e figlio disabile.
Si può osservare come le famiglie, consapevoli dei limiti del loro figlio, non sostengono le prestazioni necessarie per favorire il raggiungimento di autonomie sempre maggiori. Il timore dell'insuccesso nei compiti della vita quotidiana e della conseguente frustrazione, sostiene un rapporto di dipendenza che si protrae nel tempo. Spesso i genitori hanno la fantasia di poter trovare il modo di "curare" il proprio figlio, altre volte attendono "il miracolo". Un altro sentimento, che spesso accompagna i comportamenti che esprimono la dipendenza reciproca, è la paura che qualcuno faccia del male al figlio, la paura che egli venga aggredito e quindi ulteriormente danneggiato; si tratta di una paura comune che molti genitori riportano spesso e che utilizzano per confermare l'aspettativa di un mondo esterno troppo complesso e pericoloso per essere affrontato e gestito da una persona disabile che riesce ad essere compreso e sostenuto solo all'interno della famiglia.
Il processo psicologico che sostiene questo timore dell'esterno sembra potersi inquadrare nel fatto che la nascita e la crescita di un figlio disabile, confrontano inevitabilmente con forti sentimenti di ambivalenza che del tutto naturalmente si possono provare nei confronti di un figlio danneggiato e difficile da crescere. Questi sentimenti possono essere proiettati all'esterno. Quell'aggressività che, se provata verso il figlio, non farebbe che aumentare i sensi di colpa può essere attribuita all'esterno, ad altri: alla scuola che lo rifiuta, ai coetanei che non lo coinvolgono, ai pericoli che potrebbero minacciarlo. Il mondo esterno acquisisce pertanto una valenza negativa e il nucleo familiare tende a proteggersi richiudendosi in se stesso. In questo contesto anche i rapporti intra familiari sono messi a dura prova in quanto i normali processi evolutivi non sostengono il superamento di alcune conflittualità inevitabilmente legate all'accadere di eventi che necessitano di un percorso di accettazione ed elaborazione.
L'arrivo di un bambino disabile in una famiglia comporta una crisi molto profonda che i genitori e tutta la famiglia cercheranno di elaborare per l'intero arco della vita. Pochi genitori hanno chiara consapevolezza del significato del termine cronicità ed accettare una progressiva riduzione degli obiettivi richiede molto tempo e molte e dolorose verifiche di realtà. Il rapporto con le famiglie, il sostegno ai genitori, continua ad essere di fondamentale importanza affinché sia possibile sostenere un'analisi realistica delle capacità specifiche della persona disabile.
In questo senso la questione veramente in gioco non sono le capacità della persona compromessa, ma le aspettative dei genitori che faticano a tollerare il confronto con la realtà, non riescono ad immaginare un progetto di vita per il proprio figlio. Quando il ragazzo arriva ad essere un giovane adulto riemergono tutta una serie di fantasmi e preoccupazioni circa le reali possibilità di autonomia. Autonomia che deve senz'altro essere sostenuta ma solo in una cornice nella quale essa si fa progetto: in quanto non esiste una autonomia senza progetto. Questo è un aspetto che non va mai dimenticato quando si tratta di soggetti disabili, poiché troppo spesso l'autonomia viene presa come un esercizio di per sé, senza che essa si inserisca in un orizzonte più ampio che riattivi la storia della persona, ne faccia cioè un progetto. I genitori di una persona disabile, così come tutti gli altri, fanno di tutto per facilitare lo sviluppo del figlio in modo adeguato alle loro aspettative e a quelle del gruppo sociale a cui appartengono. Il punto di partenza è lo stesso che per le persone normali: si tratta di assicurare loro le condizioni fisiche e psicologiche migliori possibili in un clima adeguato. Tutto ciò è molto complesso in quanto non è facile chiedere ad un genitore di identificarsi nel proprio figlio danneggiato. Se il figlio è una parte di sé, su cui si tende a proiettare le nostre aspettative, ci aspettiamo da lui la realizzazione di un progetto di vita e questo è molto più complicato quando sono evidenti alcune incapacità ed inadeguatezze. Già Freud nel 1914 sottolineava quanto nel rapporto affettivo tra genitori e figli sia di primaria importanza l'elemento narcisistico che il figlio rappresenta per i genitori. Per lui, esiste in questi ultimi "una coazione ad attribuire al bambino ogni sorta di perfezioni […] e a dimenticare e coprire ogni sua manchevolezza", “a rinnovare per lui la rivendicazione di privilegi a cui da tempo hanno rinunciato”; di conseguenza, "egli deve davvero ridiventare il centro e il nocciolo del creato […] che i genitori si sentivano un tempo". L'amore dei genitori per i loro figli, secondo Freud, non sarebbe altro che il loro narcisismo che rinasce, il loro amore per se stessi. Concetto che viene ben sintetizzato nella famosa frase “His Majesty the Baby”.
E dunque è naturale la prima reazione emotiva, il non voler credere che sia definitivamente ammalato, il cercare ovunque una cura, una diagnosi più benevola. Le famiglie rispondono a questa condizione in maniera alquanto differenziata, quello che è certo è che il bambino riempie con i suoi problemi tutto il tempo ed esaurisce tutte le attività di una famiglia. Altra cosa certa dell'andamento psicologico dei genitori dei bambini disabili (e dei futuri adulti) è il dolore cronico come sottofondo sul quale si inseriscono l’insicurezza e il timore ogni volta che si passa da un'età all'altra, da una condizione ad un'altra. La famiglia del disabile fugge dallo sguardo giudicante dell'altro, che è lo specchio delle difficoltà che differenziano le prestazioni del proprio figlio dagli altri. L'immagine dell'adolescente disabile non riflette le speranze del futuro, ma il dolore del passato e il tempo del lutto sempre presente facilitando il rifiuto del futuro disabile adulto.
Ciò che rende possibile "sopportare" la nostra esistenza è strettamente collegato con la nostra capacità di illusione necessaria che viene sostenuta dalle cure provenienti dal nostro nucleo familiare originario. La persona disabile fatica a collocarsi in questo contesto perché le naturali aspettative, anche illusorie, normalmente riposte sui nostri figli, tendono ad essere disconfermate dalla dura prova di realtà. Questa profonda ferita narcisistica non riesce ad essere assimilata né dalla famiglia né dalla società. Ciò definisce uno scenario relativo ad un destino segnato dalla morte dell'illusione, la morte di un sogno, di una speranza. Sogno di felicità della famiglia che proiettava nella nascita del figlio la propria sopravvivenza e il proprio desiderio di migliorarsi.
Il processo evolutivo normale prevede che i genitori collocheranno sul bambino il loro proprio ideale dell’Io, ciò che amerebbero essere, con il quale il bambino si identificherà, facendone il proprio ideale che, a sua volta, giunto in età adulta, proietterà sul proprio figlio (Freud, 1914).
Il disabile impersona, poiché non può fare altro, il lutto per un progetto di vita fantasticato e desiderato ma difficilmente realizzabile. Qualunque riflessione possiamo fare di fronte all'integrazione del disabile questo resta un punto di partenza fondamentale. La vita di quella famiglia intera, dalla nascita del figlio disabile, è in un girone infernale senza fine, sempre alla ricerca di una salvezza. Il figlio rischierà di non essere riconosciuto per quello che è, ma per quello che manca o che non riesce ad essere.
Vanno colte le occasioni ed i momenti fertili per tentare di risignificare alcune questioni rimaste non elaborate negli anni precedenti. Potrebbe proprio essere l'adolescenza del disabile, o la prima età adulta, lo spazio in cui si potrebbero riattivare dei meccanismi di integrazione soggettiva e, con essi, una possibile storicizzazione dell'identità del giovane disabile.
L'emergere in maniera maggiormente definita della sessualità favorisce l'uscita da dinamiche narcisistiche e le spinte pulsionali potrebbero rappresentare per il soggetto un elemento che favorisce la sua separazione dagli oggetti primari. Questo percorso però risulta particolarmente complesso e insidioso per il giovane disabile per il quale il processo di separazione e l'individuazione risulta essere molto difficoltoso. L'emergere della sessualità è spesso ostacolata dalla famiglia, la masturbazione viene limitata e soprattutto non riconosciuta come una possibilità di conoscenza e, conseguentemente, di controllo della spinta pulsionale. Bisogna considerare quanto i normali oggetti di investimento siano spesso lontani ed irraggiungibili. L'adolescente disabile, come tutti noi, è alla ricerca di un riconoscimento positivo circa la propria immagine corporea ma rischia di rispecchiarsi ripetutamente in un rifiuto di questo riconoscimento e dunque fare i conti con la riproposizione di una ferita narcisistica che tende a ripresentarsi nel tempo. Nell’adolescente disabile la spinta verso relazioni con l’esterno della famiglia, con i coetanei e con il contesto sociale è spesso ostacolata in quanto portatrice di difficoltà che possono facilitare relazioni intrafamiliari di tipo regressivo. Le difficoltà a favorire i rapporti interpersonali si pongono come elemento di disturbo in un quadro ove le spinte evolutive potrebbero essere colte come occasione per ridefinire, anche solo in parte, i ruoli nella famiglia e nuove e costruttive relazioni esterne. Non ancora vere e proprie relazioni interpersonali, perché spesso sostenute da uno scarso riconoscimento dell'alterità dell'altro, ma comunque inizio di un possibile momento di soggettivazione.
Tutto ciò ha implicazioni molto problematiche per il giovane disabile in quanto è obbligato ad un continuo processo di isolamento per garantirsi una tenuta psichica. L'isolamento non gli permette di accrescere quelle relazioni che sostengono uno sviluppo normale, creando le condizioni favorevoli all'emergere di strutture psicopatologiche sostenute da un graduale allontanamento dal mondo sociale circostante. L'oggetto di investimento si trasforma così in un oggetto che è regolato dalla logica del bisogno e non tanto da quella del desiderio. Si configura una situazione di grave rischio psicotico così frequente, come innesto, negli adolescenti disabili.
Risulta pertanto indispensabile, per tutti coloro che operano a stretto contatto con giovani disabili, tollerare e comprendere i processi psicotici che si evidenziano nella quotidianità, cercando di trasformarli in occasioni di incontro con l'altro, affinché sia possibile promuovere il percorso di soggettivazione.
Elemento essenziale del percorso riabilitativo è dunque il rapporto con le famiglie dei ragazzi disabili, seguendo l'ipotesi che un processo riabilitativo possa essere considerato tale solo se si riescono a coinvolgere tutti gli attori del processo. Nel caso dell’handicap grave ciò è ancor più importante se si pensa che spesso questi utenti non sono in grado di esprimere un proprio parere o un proprio giudizio riguardo all'esperienza riabilitativa che gli viene proposta.
Il coinvolgimento dei familiari, sia nella fase di progettazione dell'intervento, sia nella fase di valutazione dello stesso, può rappresentare non solo una necessità ma soprattutto una risorsa, laddove al paziente non può essere direttamente richiesto un punto di vista.
Di conseguenza, vengono sollecitate iniziative di coinvolgimento e formazione dei genitori (Milani, 1993) specialmente quando all'interno delle famiglie vive una persona disabile. Queste presenze, come si diceva, determinano gravi ripercussioni su tutta la famiglia, portando significative modificazioni agli stili e alla qualità della vita dei suoi membri.
Il coinvolgimento dei familiari, in questo senso, risulta essere di fondamentale importanza in quanto la presenza di un figlio disabile richiede “competenze” che difficilmente un genitore non adeguatamente sostenuto è in grado di manifestare (Soresi 1993; Soresi e Meazzini 1990). Infatti spesso accade che nelle famiglie al cui interno esiste una persona disabile, tale disabilità può essere funzionale al mantenimento di un determinato equilibrio.
Un lavoro di interconnessione volto a potenziare le aree sane e funzionali della persona e della famiglia facilita il lavoro di elaborazione (che dura una vita) e accettazione dei limiti del proprio figlio e favorisce l’espressione di abilità psico-sociali utili al miglioramento della qualità della vita. Tali abilità risultano talvolta congelate in quelle famiglie al cui interno esiste una persona disabile.
Lavorare con le famiglie verso una maggiore autonomia dei figli non consiste necessariamente nel proporre ulteriori terapie ed interventi, ma soprattutto contrattare e ricontrattare gli obiettivi che ci si è posti.