“A quiet passion” di T. Davies. Recensione di Rossella Valdrè
“con te non posso vivere
perché sarebbe vita, e la vita è lassù, dentro lo scaffale”
Emily Dickinson
Amare o vivere? E se amare, in che modo?
Ho così intensamente studiato, frequentato internamente ed anche esternamente Emily Dickinson in un pellegrinaggio cultural-emotivo alla sua casa di Amherst, che non è facile tentare di “recensire” questo straordinario film. Perché straordinario? Perché è il primo che tenti seriamente di raccontare una vita quasi non narrabile, pressoché priva di eventi ed azione, tutta giocata sul filo lieve di un’interiorità eccezionalmente dotata, senza cadere nei vari luoghi comuni che hanno punteggiato la biografia di una poetessa molto citata, ma poco conosciuta; si può dire che Terence Davies sia in gran parte riuscito in quest’operazione. A quiet passion, in cui necessariamente il regista sceglie alcuni dei molti versanti da cui si poteva trattare il personaggio, trova la giusta cifra e la denuncia già nel titolo, fortunatamente non tradotto: una passione quieta, quella di Emily, ma una passione. Questo è il nucleo su cui vorrei soffermarmi. Amare o vivere, è il conflitto tremendo di Emily; amare è pericoloso, ma la giovane geniale mente di Emily scopre che esiste una forma di amore che ne preserva il piacere pur rinunciando, in parte, alla vita, un amore appassionato ma che trasforma in simbolo il suo oggetto sempre sfuggente: la sublimazione. Il vivere, allora, può andare nello scaffale, la sua camera.
Il film sceglie di mettere in luce alcuni passaggi essenziali della breve vita della più grande e moderna poetessa dell’ultimo secolo: la sua rivolta “femminista” ante-litteram, il rifiuto di una religiosità imposta e confessionale (mentre intrattiene internamente un continuo dialogo con Dio, ma con il dio degli uomini), e il passaggio dalla serena adolescenza ricca di speranze e aspettative, alle disillusioni e ai lutti della maturità. Lascio allo spettatore l’esile trama tutta racchiusa nella grande casa paterna, da cui Emily uscì molto poco in giovinezza (una sola visita a Washington), per poi non uscirvi più del tutto negli ultimi 16 anni della sua vita: è solo negli “interni”, fisici e psichici, che ha luogo il film. Questa scelta ha la sua ragion d’essere: Emily scoprì il mondo senza il bisogno di visitarlo, esplorò tutto lo spettro delle emozioni umane pur frequentando solo lo stretto ambito degli amati familiari e delle pochissime amicizie, che spesso la deluderanno. Fatico a immaginare un personaggio più psicoanalitico: la grande finestra della sobria camera al piano alto le era varco sufficiente a vedere il mondo (“la vita è lassù, dentro lo scaffale). Una scelta analoga a quella del nostro pittore Morandi che, pur diversissimo per storia, sesso e provenienza, trascorse gli ultimi anni della vita davanti alla finestra, a dipingere solo lo stesso scarno paesaggio, sempre più miniaturizzato ed essenziale: al mondo non c’è niente di nuovo, diceva, dipende dal nostro sguardo.
Merito del film è aver sottratto con pensata leggerezza i miti banalizzanti e la varia aneddotica che a lungo ha circondato un personaggio misterioso perché tutto racchiuso nell’intimo, ma al tempo stesso straordinariamente espressivo e vitale: che fosse una donna cupa, isolata, strana. Emily amava la vita nella sua essenza più pura (“io gioisco della vita/il segreto più puro”). Necessitava di solitudine per la sua creatività (“sarei più sola/senza la mia solitudine”) ma non era isolata, stretta negli affetti fortissimi per tutti i familiari ben disegnati nel film, non cadde mai in quella penosa condizione femminile che Virginia Woolf condensò “nell’essere sempre isolata ma mai sola”, condizione che confinava la donna nell’impossibilità al pensiero creativo e alla cultura. Il carattere, prima dei terribili lutti che si susseguono uno dopo l’altro, era mite ma irriverente, allegro e pungente, un’autentica ribelle in un’epoca e un ambente sociale dove l’unico possibile destino delle donne (anche quelle intelligenti come l’amica giovanile Kate) era il matrimonio. La scena iniziale irrompe con il tratto identitario di Emily, a cui resterà sempre fedele: giovane studentessa è l’unica che, nell’America conservatrice e benpensante del New England di metà ‘800, rifiuta l’adesione al cristianesimo preferendo “il peccato”, poiché già ragazzina compie la straordinaria rottura, per una donna dell’epoca, di voler scegliere il proprio destino. Il “peccato”, è il pensiero, l’assunzione di responsabilità delle proprie scelte, non delegate a un Dio che non sia la personale ricerca della verità. Il film si apre dunque con lo scandalo di una straordinaria personalità. Supportata dal padre, il severo avvocato Dickinson che ha però l’apertura mentale di concederle di “scrivere di notte”, poiché Emily è animale notturno, potrà dedicarsi interamente alla poesia.
Il titolo mette dunque in luce l’elemento cruciale: la passione. La psicoanalisi ci insegna che una sublimazione così potente, una rinuncia così radicale all’amore terreno, può derivare solo da Eros: niente è più forte di una passione deviata, scriveva Lou Salomè. Nella scelta del titolo, trovo che il regista, certo studiando il personaggio ma con l’intuizione preconscia degli artisti, colga l’aspetto meno banale e psicoanaliticamente più interessante che certi geni pagano alla creatività: la sublimazione come necessaria alla poesia e come fonte di piacere, venata dal dolore che comporta proprio per l’entità delle rinunce e, sul piano metapsicologico, per la sua sempre possibile contiguità con la pulsione di morte. La rinuncia a Eros è spostata nella poesia: alcuni, tra i versi della Dickinson, nascondono un intenso erotismo che ha rinunciato al suo oggetto (“l’anima sceglie il suo compagno/e chiude la porta), pur in una donna che non visse mai rapporti carnali. II film individua nella scelta alla rinuncia la combinazione di una personalità che non si piega ai compromessi richiesti a una donna del suo tempo, e il dolore delle disillusioni: l’amore fa soffrire (“tutti se ne vanno”, “la separazione, quella è la notte”), il reverendo su cui ripone simpatia e stima, chiaro sostituto paterno, la deluderà; il riconoscimento desiderato non arriva, la sua poesia è troppo vicina alla verità, elimina fronzoli e punteggiature, le poche poesie pubblicate in vita (7 delle più di 2000 che dopo la morte la sorella Lavinia e la cognata Susan riescono a recuperare) subiscono critiche umilianti. Così, il ritiro. Ma nel ritiro le passioni non si spengono, trasferite completamente nella parola, quella parola metaforica che Emily ricercava perfetta, assoluta, essenziale; esplodono saltuariamente in gelosia quando il fratello tradisce l’amata cognata Susan (e forse invidia per l’amore carnale a lei precluso), pur debilitata dal raro morbo di Bright, non cessa né di comporre né di non rinunciare alla verità. Fu una donna passionale, è l’intuizione riuscita del film, che pur rinunciando a molti elementi della poetica e della biografia ad esempio epistolare, dà preciso profilo e dignità psicologica, perfino psicoanalitica, ad un personaggio la cui lettura si prestò a molti equivoci e sciocchi misteri. Non c’era niente di etereo, in questa piccola donna vestita di bianco che amava i bambini e scriveva di notte: come nel genio puro che Freud tenta di descrivere nel “Leonardo”, fortissima era la passione, l’Eros, ma mite. Quiet.
Punto che trovo un po’ debole nel film, è l’eccesso di drammaticità della seconda parte; chi conosce l’opera e la vita (l’opera coincide con la vita) della Dickinson, sa che anche il dolore degli ultimi anni era pur sempre illuminato, sublimato, nell’intensa gioia dello scrivere. Gioia tutta intima, interiore, tristezza sì ma vitale.
Ricerca della verità a costo della “felicità”, fuga dall’apparire (“che grande peso essere Qualcuno!”), sublimazione, interesse potente per la vita interiore e fedeltà assoluta agli oggetti d’amore, ne fanno un personaggio moderno nel coraggio di una scelta artistica al femminile, e al tempo stesso squisitamente anticontemporaneo: il fascino che la Dickinson esercita anche sullo spettatore che non ne conosca l’opera, è questo suo essere “inattuale”, unica, coerente al suo desiderio fino all’estremo, indifferente ai retaggi del suo tempo ma capace di coglierne il nuovo. Inattuale come è (o dovrebbe essere) la psicoanalisi: qualcosa di irriducibile, sottratto alle mode ma presente allo spirito del tempo e anzi capace di leggere oltre, estranea all’”attuale “ del luogo comune e del buonsenso.
Cythia Fox (indimenticata Miranda che con questo film si sgancia definitivamente dall’eterno stigma di “Sex and the City”), pur non coprendo, a mio avviso, una somiglianza perfetta con l’austerità che i ritratti ci rimandano di Emily, si cala intensamente nel personaggio e, inseme alla piccola cerchia degli altri attori, è ben resa l’intensità della vita che si svolgeva nella casa di Amhrest, calandoci in un mondo il cui stile, educazione, cultura, dedizione, lo fanno apparire tristemente lontano dai facili riduzionismi e dalle volgarità contemporanee.
Ma il punto centrale resta la passione: si può vivere il massimo dell’amore anche senza mai consumarlo, i destini libidici consentono alla mente trasformazioni straordinarie che ci lasciano capolavori, dando ai loro autori sia il piacere della creazione (“il cuore prima chiede gioia”) sia il dolore della rinuncia. La verità rispetto alla convenienza, è l’etica di Emily su cui il film si sofferma e può far riflettere lo spettatore contemporaneo, così lontano da quei valori perduti nella realtà fluida del mondo di oggi. Il messaggio rivoluzionario di una vita appassionata e ritirata al tempo stesso: non c’è bisogno di correre, affaccendarsi, agire per provare passione. La mente, esiliata ma non isolata dai rumori del mondo, è in sé capace di creare un mondo e donare pienezza all’esistenza; essere fermi non vuol dire essere spenti.
Atrocemente laica, la morte (a cui, come detto, la seconda parte del film dà eccessivo spazio) è pensata e anticipata in molte poesie, il Giudice supremo. Il film ne riporta appropriatamente una, tra le più tristi, con cui Emily saluta il mondo, che non l’ha voluta: “è questa la mia lettera al mondo/che mai non scrisse a me”. La sua poesia, rispetto alla metrica ottocentesca, era così innovativa e ardita da subire rimaneggiamenti e correzioni per renderla più “facile e femminile” per molti anni, con il rischio di una vera devastazione; è solo nel 1955 che l’opera della Dickinson ci viene restituita in tutta la sua integrità.
Lo scarto tra amare e vivere, l’impossibilità di godere di entrambi, la ribellione al mito della non creatività femminile, il valore degli affetti primari come unici in cui sentirsi sicuri e, ripetiamolo, la possibilità di una vita appassionata nell’esclusiva pace del mondo interno, sono i temi che “A quiet passion” privilegia nel duro tentativo di raccontare un poeta.
Difficile parlare di un poeta, disse la Szymborska quando ritirò il Nobel per la letteratura: un poeta va letto.
“Dì tutta la verità,
ma dilla obliqua”
Una nota per chi desiderasse approfondire. La letteratura sulla Dickinson è infin
ita e nuove traduzioni continuano ad essere perfezionate, segnalo le poesie tutte raccolte nei Meridiani Mondadori; una bella biografia in italiano della Bulgheroni ”Nei sobborghi di un segreto. Vita di Emily Dickinson” (2001); il mio “Sulla sublimazione” (2015) (o “On sublimation”, 2014) che le dedica un capitolo, e il video della conferenza “Emily Dickinson: una vita dentro lo scaffale” in www.palazzoducale.it, 2016.
Bibliografia
Bulgheroni, M. (2001), Nei sobborghi di un segreto. Vita di Emily Dickinson, Milano, Mondadori.
Dickinson, E. (1997), Tutte le poesie, Mondadori, I Meridiani, Milano.
Valdrè, R. (2015), Sulla sublimazione. Un percorso del destino del desiderio nella teoria e nella cura, Mimesis Edizioni, Milano.
Giugno 2018